Le prime pagine di Guerrieri. © Caffèorchidea
Nicola si sveglia rannicchiato sul lato buono del materasso, dove l’imbottitura non è ancora completamente fuoriuscita dall’involucro. La luce rosata dell’alba illumina i mattoni che lo circondano, interrotti solo da una porta di metallo ridipinta troppe volte, come testimoniano i contorni di un’ampia scalfittura. Sul lato opposto, a ridosso del basso soffitto, la finestrella dalla quale alzandosi sulle punte riesce a scorgere un campo di erba alta e una strada di sabbia e sassi. Tra i fori dei mattoni, tenuti insieme da veloci passate di calce, intravede De Luca di schiena, ancora immobile sulla sua branda. Si volta sull’altro fianco e una molla quasi lo colpisce al viso. Da quel lato i mattoni sono pieni, una sezione è intonacata un po’ come viene. Il sonno di Nicola è stato punteggiato di risvegli e sogni minimali privi di alcuna narrativa: Michelina immersa in una vista marina (le Tremiti, due anni fa? Oppure Peschici, pochi mesi prima della partenza, in quel ristorante di pesce dove la guerra sembrava solo un affare che non li riguardava, mentre brindavano al loro primo anniversario di matrimonio?); le sue mani da sarto giovane ma già esperto che danzano ossessivamente sull’orlo di un cotone che diventerà camicia; le stesse mani che spezzano il collo a una faina, con la sorpresa che segue la naturalezza del gesto. Scrolla la testa come a voler scacciare il ricordo. L’odore di polvere bagnata suggerisce che la notte scorsa è piovuto, acqua che non rinfresca ma appesantisce il calore dell’estate siciliana. Si mette a sedere sul materasso. Osserva quel che resta della divisa, gettata sul pavimento di cemento a pochi centimetri da una macchia di gasolio. Ha perso la giacca e non ricorda esattamente com’è successo. Dev’essere stato mentre cercava di sfuggire agli inglesi. Infila i pantaloni e afferra uno stivale. L’alluce destro fuoriesce da un ampio buco del calzino.
«Buongiorno» dice De Luca ancora steso. Nicola alza appena lo sguardo e senza un cenno torna a occuparsi dei suoi lacci. Al suo posto rispondono, parlandosi uno sull’altro, Capuzzo, Jacoboni e Greco.
«Mi tiene ancora il muso, sergente?» rilancia De Luca.
«No, ma non ho niente da dirle. E lei ha già parlato abbastanza.»
«Avrà pure delle qualità» replica De Luca dopo un rumoroso sospiro. «Ma avere le palle non è tra queste.»
Nicola non risponde.
«Mo’ basta De Lu’» interviene Jacoboni. «Abbi rispetto.»
«Il rispetto uno se lo guadagna, a fatti e a parole» sibila De Luca.
«Mi spieghi» scatta Nicola. «Ho ucciso per la prima volta e mi sento male. Che problema le crea? Che c’entra col rispetto?»
De Luca si alza in piedi, senza fretta di replicare. Si stira con calma, un raggio di sole obliquo penetra dalla finestra della cella vicina e gli inquadra il viso: la barba di più giorni accentua la durezza degli zigomi e le guance scavate. I giorni in cui poteva essere definito “ragazzo” sono alle spalle.
«Ha ucciso un soldato, non un uomo. Mica è in vacanza. Qui non ci servono mesi causset.»
«Soldato, le intimo…»
Vengono interrotti dallo stridio della chiave che gira nella toppa del portone. Due inglesi scherzano tra loro mentre scendono le scale che conducono al seminterrato. Aprono le porte delle celle una alla volta. Nicola, già vestito, si allinea nel corridoio, seguito da Greco Capuzzo.
«Ma che fretta avete?» protesta De Luca di fronte al brusco invito a muoversi di un ragazzo segaligno, bruno di capelli e di carnagione, occhi scuri. «Kourdi, Kourdi… tu non sei davvero inglese. Con ’sto cognome e ’sta pelle, tua madre come minimo ha avuto un amico africano» prosegue mentre si infila la camicia.
Kourdi lo guarda senza capire ma ribadendo di spicciarsi. De Luca si mette in fila con passo intenzionalmente lento. Kourdi gli punta la canna dell’M1 Garand dietro la schiena, spingendolo verso le scale. Vengono fatti fermare al centro dell’aia, lo sguardo rivolto verso l’ingresso della casa coloniale che li ospita. Rispetto al giorno precedente, le finestre del primo piano non sono più sprangate da assi di legno e lo scuro che penzolava da un cardine è stato rimosso. Tutto il resto è identico: attorno a sé Nicola conta una dozzina di soldati e due cani da pastore. Una giovane guardia li controlla dall’ombra di un gazebo di fortuna, il fucile a terra e lo sguardo di chi preferirebbe essere altrove. Un gruppetto gioca a carte sul cofano di un fuoristrada senza lasciarsi distrarre dalla fila dei prigionieri. Più in disparte, c’è un soldato che siede a gambe incrociate sotto un patio di lunghi bastoni a sostegno di un telone impermeabile, il fucile smontato tra le gambe, sta passando uno straccio sporco di grasso sulla canna. Tra l’ingresso e il cancello, lo smilzo tronco di un pino è stato adattato a pennone, sulla sommità del quale pende pigra una bandiera britannica. La piacevole brezza marina del giorno precedente ha lasciato il posto a un’afa immobile. Oltre il cancello che chiude il cortile, un campo di grano del cui raccolto nessuno ha potuto occuparsi.
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